La situazione emergenziale che caratterizza oggi il nostro Paese ha condotto ad un graduale incremento del numero degli esercizi commerciali che, per ordine della Pubblica Autorità, hanno dovuto interrompere la propria attività, rimanendo dunque chiusi al pubblico o sospendendo la produzione di beni e servizi.
I Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nn. 8, 9 e 11 del marzo 2020 hanno infatti progressivamente esteso l’obbligo di sospensione delle attività a tutto il territorio nazionale ed a un sempre maggior numero di categorie commerciali, con efficacia fino al 3 aprile 2020 (fatte salve ulteriori proroghe che dovessero rendersi necessarie sulla base dell’andamento dell’emergenza epidemiologica). Per alcune regioni – come la Lombardia – l’efficacia si è spinta ancora più avanti nel tempo: il 15 aprile 2020.
Tale inevitabile misura non poteva che provocare evidenti ricadute sul fatturato delle attività commerciali e, conseguentemente, generare negli imprenditori difficoltà nel rispetto delle obbligazioni derivanti dai contratti di locazione degli immobili in cui le medesime attività venivano svolte.
Com’era immaginabile che fosse, la situazione generatasi ha quindi sollevato diversi quesiti in merito all’effettiva debenza o meno del canone pattuito quale corrispettivo del contratto di locazione commerciale, per un immobile che, seppur formalmente utilizzato, non risulta tuttavia concretamente usufruibile, con diverse e contrastanti opinioni che si fronteggiano a sostegno delle contrapposte tesi di
landlords e tenants, fino a scaturire, da ultimo, in una interpretazione dell’art. 91 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Cura Italia”.
Ciascuna delle voci espressesi in questi giorni sul punto, con particolare riferimento ai contratti di locazione commerciale che non prevedono specifiche clausole in tal senso, muove dagli articoli del codice civile che, disciplinando l’istituto della locazione, individuano le prestazioni fondamentali delle parti contraenti.
L’art. 1571 c.c. definisce la locazione come quel contratto “con il quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un dato corrispettivo”. Tra i vari obblighi ricadenti sul soggetto che loca ad un altro soggetto un bene viene, infatti, indicato quello di “garantirne il pacifico godimento durante la locazione” (art. 1575, n. 3, c.c.). Muovendo da tale premesse, nella situazione attuale viene dunque ad evidenziarsi un inadempimento del locatore, il quale non ha garantito al conduttore il pacifico godimento della cosa oggetto del contratto.
Contrariamente a tale tesi, tuttavia, non si può certo ignorare il generale principio che permea il nostro ordinamento secondo cui ogni soggetto è unicamente responsabile delle proprie azioni ed omissioni, con la conseguenza che un locatore che abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa locata, non potrà essere ritenuto responsabile di un ordine dell’autorità amministrativa del tutto indipendente dalla propria condotta e volontà.
Il caso di specie, infatti, ricade pacificamente in una ipotesi di cd. forza maggiore e, come tale, imprevedibile, inevitabile e non imputabile ad una delle parti contrattuali. Forza maggiore che viene esercitata dai provvedimenti dell’autorità amministrativa (cd. factum principis) che hanno determinato la sospensione coatta di specifiche attività. Pertanto, nessuna responsabilità potrà essere imputata ad un soggetto che, facendo affidamento sull’autorità del princeps (vale a dire, la pubblica autorità), abbia adempiuto all’ordine emanato da quest’ultima (la chiusura degli esercizi commerciali), nonostante la conseguente alterazione del sinallagma contrattuale ed inevitabile alterazione dell’equilibrio tra le parti sottoscrittrici del contratto.
Si potrebbe sostenere che la prestazione tipica del locatore (vale a dire il garantire il godimento del bene oggetto del contratto al conduttore) sarebbe divenuta impossibile. Ai sensi dell’art. 1463 c.c., infatti, nel caso di impossibilità totale, la parte liberata dalla sopravvenuta impossibilità della propria prestazione (il locatore) “non può chiedere la controprestazione” (il canone). Anche in questo caso, tuttavia, il codice ci ricorda, all’art. 1256 c.c., che, qualora la prestazione sia divenuta solo temporaneamente impossibile, come è invero nel caso di specie in ragione di un’auspicabilmente prossima riapertura dei negozi, “il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”, sollevando dunque il locatore da ogni responsabilità in tal senso.
Qualora poi si volesse argomentare, a contrario, che la mancanza degli incassi determinerebbe l’impossibilità per il conduttore di adempiere alla propria obbligazione per il tempo per il quale durerà l’emergenza sanitaria (vale a dire il pagamento del canone), anche in questo caso va ricordato che il conduttore risulterebbe non “responsabile [unicamente, ndr] del ritardo nell’adempimento”, con il solo effetto di posticipare l’obbligo di versamento del canone e non di escluderlo.
È stata poi presa in considerazione, dagli operatori del settore, la strada dell’eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto di locazione, disciplinata dall’art. 1467 c.c. Anche sul punto, se, per un verso, potrebbe essere argomentato che la situazione attuale potrebbe generare un’eccessiva onerosità sopravvenuta per la parte conduttrice che, pur dovendo adempiere alle proprie obbligazioni, corrispondendo il canone di locazione pattuito, non può godere del bene oggetto del contratto, per altro verso, la disciplina codicistica individua, come rimedio per tale evento patologico, soltanto la risoluzione del contratto. Risoluzione che, una volta esercitata dal conduttore, potrà essere evitata unicamente dal locatore mediante un’offerta di modifica delle condizioni contrattuali ad una misura ritenuta equa, ex art. 1467 c.c.
Nel caso in cui si scegliesse di percorrere tale percorso, sarà dunque necessaria una preliminare ed approfondita valutazione da parte del conduttore, sia sulla non definitività delle circostanze di crisi che determinano l’eccessiva onerosità sopravvenuta, sia sul rischio di immutabile cessazione degli effetti del contratto, con conseguente esigenza di trasferimento dell’attività.
Questo il quadro di tesi contrapposte.
Una cornice complessa.
Alla luce del sopraesposto quadro normativo, vi è chi ha sostenuto che l’art. 91, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. Cura Italia, sarebbe intervenuto al fine di sostenere le esigenze dei conduttori dei contratti di locazione commerciale, giustificando il mancato pagamento dei canoni di locazione per il periodo di obbligatoria chiusura delle attività commerciali. I Landlords lo “leggono” nella direzione di una conferma – invece – dell’obbligo del conduttore di pagare “comunque” il canone.
Sbagliano entrambi, in realtà.
Invero, il decreto Cura Italia, con la citata norma, a parere di chi scrive ha unicamente inteso disciplinare le conseguenze del ritardo e degli inadempimenti contrattuali conseguenti all’attuazione delle misure di contenimento, richiamando un principio giuridico già presente nel nostro ordinamento nel citato art. 1256 c.c.
L’art. 91, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, infatti, ha unicamente modificato l’art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito con modifiche nella L. 5 marzo 2020, n. 13), in materia di Attuazione delle misure di contenimento, introducendo un ulteriore comma secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Pertanto, anche volendo ignorare che la citata norma è stata redatta con riferimento ai contratti pubblici e immaginando dunque un’applicazione analogica della stessa ai contratti tra privati, dovrà comunque essere considerato che la stessa interviene esclusivamente a limitare le conseguenze del ritardato adempimento e non, come sostenuto da alcuni, a giustificare l’inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte.
In conclusione, nonostante l’evidenza di una situazione di crisi sanitaria che potrebbe presto mutarsi – se non si è già mutata – anche in una crisi economica e alla luce del necessario bilanciamento degli interessi di locatori e conduttori legati da rapporti contrattuali di locazione commerciale, nessuna indicazione è stata fornita da parte dei provvedimenti ad oggi adottati dal Governo con riferimento alla validità o meno delle obbligazioni contenute nei predetti contratti, né tale situazione è stata prima d’ora affrontata dalla moderna giurisprudenza, rendendo dunque incerta la valutazione giuridica cui è chiamato l’interprete tanto della posizione del locatore, quanto di quella del conduttore, nel caso in cui detti soggetti dovessero ricorrere all’autorità giudiziaria al fine di sentir dichiarare la sussistenza o meno dell’obbligazione di versamento del canone di locazione a fronte dell’adozione dei provvedimenti di chiusura da parte dell’autorità amministrativa.