Il 7 dicembre il Ministro Orlando e le Parti Sociali hanno firmato il “Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile”, documento che detta le linee guida in materia di smart working valide a partire dalla fine dello stato di emergenza.
Lo smart working non integra una nuova tipologia contrattuale, alternativa al lavoro subordinato/autonomo, ma semplicemente una diversa modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato, frutto di un approccio evoluto all’organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa. Ed in effetti lo smart working (che in Italia nasce col nome di “lavoro agile”) è stato introdotto nell’ordinamento italiano dall’art. 18 della Legge 22 maggio 2017, n. 81, come modalità flessibile di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario e luogo di lavoro.
Nell’era pre-pandemica veniva vissuto da imprenditori “visionari” come uno strumento per ripensare il lavoro in un’ottica più contemporanea, in cui i tradizionali vincoli di luogo e orario di lavoro rischiavano di diventare eccessivamente limitanti mentre garantire l’equilibrio ottimale tra vita professionale e personale diventava un valore fondamentale tanto quanto il diritto all’equa retribuzione.
In estrema sintesi, si cominciava a intuire che lasciare alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione e fiducia nel talento individuale, si poteva tradurre in una maggiore produttività ed efficienza.
Non solo, lo smart working veniva utilizzato come strumento utile per ripensare materialmente e strutturalmente il luogo di lavoro, per renderlo più moderno ed in grado di supportare flessibilità e collaborazione anche delocalizzata, investendo sull’ottimizzazione degli strumenti e delle tecnologie e garantendo ambienti di lavoro funzionali ai lavoratori.
Purtroppo, l’emersione e il riconoscimento delle potenzialità offerte dallo smart working è coincisa con l’emergenza sanitaria e il governo ha cominciato ad incentivarne l’utilizzo solo a partire dai famosi DPCM del 23 febbraio e dell’8 marzo 2020, semplificandone la procedura di accesso, proprio perché era diventato l’unico modo per garantire la continuità operativa e la salvaguardia di numerose realtà imprenditoriali. Naturalmente l’intuizione di chi lo utilizzava già in epoca pre-pandemica si è rivelata corretta: lo smart working sta portando vantaggi alle aziende, in termini di miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo e riduzione dei costi per gli spazi fisici. E i vantaggi riguardano anche la soddisfazione del lavoratore e il miglioramento dell’equilibrio vita lavoro.
Un’esperienza preziosa seppur in un’epoca drammatica che ha permesso di fare in poco tempo un percorso di apprendimento e consapevolezza che, in condizioni normali, avrebbe probabilmente richiesto anni e si sarebbe scontrato con non pochi muri e barricate di tradizionalismo.
Attualmente, invece, l’integrazione tra lavoro da remoto e ufficio sembra realtà consolidata oltre che strumento utile sia per migliorare la comunicazione che l’engagement dei dipendenti.
Naturalmente non mancano risvolti negativi (di cui tuttavia il protocollo in esame, in maniera matura e consapevole, tiene conto) quali la difficoltà di disconnettersi e la sicurezza, ma l’esperienza non può che considerarsi allo stato positiva ed ha avuto il merito di far uscire lo smart working dalla nicchia in cui inizialmente sembrava destinato a risiedere per diventare invece quanto di più comune in un’organizzazione aziendale moderna e funzionale.
Sintomo della familiarità dello strumento è il Protocollo oggi in esame, che va a sancirne i capisaldi inderogabili: accordo delle parti; fasce orarie; diritto alla disconnessione e alla sicurezza. Il tutto nell’ottica di aumentare le tutele per i lavoratori, adattare il più possibile la disciplina legale alle esigenze lavorative effettive, e accorciare le distanze tra lavoro in presenza e lavoro agile.
Passiamo quindi ad esaminare, per grandi linee, cosa prevede il documento in commento.
Anzitutto, viene affidato alla contrattazione collettiva il compito di intervenire in tutti i contesti e settori per incrementare il ricorso all’utilizzo dello strumento.
Viene naturalmente ribadita la necessità di un accordo, lo smart working non può essere attuato che su base volontaria e cristallizzato in un accordo sottoscritto da entrambe le parti. In particolare, l’accordo deve prevedere:
a) la durata, che può essere a termine o a tempo indeterminato; b) l’alternanza tra i periodi di lavoro all’interno e all’esterno dei locali aziendali; c) i luoghi eventualmente esclusi per lo svolgimento della prestazione lavorativa esterna ai locali aziendali; d) gli aspetti relativi all’esecuzione della prestazione lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e alle condotte che possono dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari nel rispetto della disciplina prevista nei contratti collettivi; e) gli strumenti di lavoro; f) i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e/o organizzative necessarie ad assicurare la disconnessione; g) le forme e le modalità di controllo della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali; h) l’attività formativa eventualmente necessaria per lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile; i) le forme e le modalità di esercizio dei diritti sindacali.
Come dicevamo, la giornata lavorativa dello smart-worker si caratterizza i) per l’assenza di un preciso orario di lavoro; ii) per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché iii) per il rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali.
Fermo quanto sopra e ferma la possibilità di individuare “specifiche” fasce orarie di operatività, lo smart- worker ha diritto che sia individuata anche la c. d. “fascia di disconnessione” nella quale ritenersi libero di non lavorare e per la quale la legge richiede di adottare specifiche misure tecniche e/o organizzative di garanzia e tutela.
Naturalmente lo smart worker ha diritto alla fruizione dei permessi orari previsti dai contratti collettivi o dalle norme di legge. E, nei casi di assenze c.d. legittime (es. malattia, infortuni, permessi retribuiti, ferie, ecc.), può disattivare i propri dispositivi di connessione e, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, non è comunque obbligato a prenderle in carico, non prima della prevista ripresa dell’attività lavorativa.
Quanto al luogo di lavoro vige la massima libertà di scelta purché si tratti di luogo idoneo a consentire la regolare esecuzione della prestazione, in condizioni di sicurezza e riservatezza, anche con specifico riferimento al trattamento dei dati e delle informazioni aziendali nonché alle esigenze di connessione con i sistemi aziendali.
Quanto agli strumenti di lavoro, la fornitura resta in carico al datore di lavoro che quindi deve assicurare al lavoratore la disponibilità di strumenti che siano idonei all’esecuzione della prestazione lavorativa e sicuri per l’accesso ai sistemi aziendali. È possibile concordare l’utilizzo di strumenti tecnologici e informatici propri del lavoratore, a condizione di stabilire i criteri e i requisiti minimi di sicurezza da implementare.
Naturalmente anche agli smart workers si applica la disciplina vigente in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e per il datore di lavoro resta fermo l’obbligo di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e quindi anche di fornire tempestivamente a tale lavoratore l’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Analogamente rimane fermo l’obbligo per i lavoratori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione di lavoro agile.
Poco o nulla cambia in materia di infortuni e malattie professionali: il lavoratore agile ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali. Ed il datore di lavoro deve garantire la copertura assicurativa INAIL contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, anche derivanti dall’uso dei videoterminali, nonché la tutela contro l’infortunio in itinere, secondo quanto previsto dalla legge.
Naturalmente lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità “smart” non modifica il sistema dei diritti e delle libertà sindacali individuali e collettive definiti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Sarà cura delle parti sociali attivarsi per individuare le migliori modalità di fruizione di tali diritti.
Tantomeno lo svolgimento della prestazione in modalità agile potrà essere causa di disparità di trattamento in materia di livello, mansioni, inquadramento professionale e retribuzione del lavoratore ed anche con riferimento ai premi di risultato riconosciuti dalla contrattazione collettiva di secondo livello, e alle stesse opportunità rispetto ai percorsi di carriera, di iniziative formative e di ogni altra opportunità di specializzazione e progressione della propria professionalità, nonché alle stesse forme di welfare aziendale e di benefit previste dalla contrattazione collettiva e dalla bilateralità.
L’accesso al lavoro agile dovrà poi essere facilitato per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole. Nonché come ampio e concreto supporto anche in ambito di genitorialità, inclusione e conciliazione vita-lavoro, anche mediante misure di carattere economico e/o strumenti di welfare che supportino l’attività di lavoro in modalità agile da parte del lavoratore.
Permangono gli obblighi di legge in materia di trattamento di dati personali, riservatezza sui dati e sulle informazioni aziendali in proprio possesso e/o disponibili sul sistema informativo aziendale nonché la normativa vigente sul trattamento dei dati personali e, in particolare, il Regolamento UE n. 679/2016 (GDPR).
Altresì permane l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore agile in merito ai trattamenti dei dati personali che lo riguardano, anche nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 Stat. Lav. e s.m.i.
Articolo pubblicato su N&T Plus Diritto il 16/12/2021