Il Tribunale di Busto Arsizio ha accolto il ricorso dell’Associazione Nazionale Lotta alle Discriminazioni per violazione della normativa sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (D.Lgs. n. 216/2003), condannando un’azienda di moda al risarcimento del danno in favore dell’Associazione ricorrente, alla pubblicazione della sentenza, nonché ad erogare in azienda un corso formativo in materia di discriminazione.
Il caso in commento aveva ad oggetto le dichiarazioni pubbliche rilasciate, in merito alle proprie preferenze in sede di accesso alle posizioni apicali della Società, dall’amministratrice dell’azienda che, nell’ambito di un evento pubblico, dinanzi al Ministro per la famiglia e le pari opportunità, del vice Ministro della cultura, del Presidente della camera nazionale della moda italiana e di altre personalità di spicco operanti nel mercato della moda, affermava, in diretta streaming sulle note piattaforme “you tube”, “facebook”, “twitter”, “linkedin” e “instagram” quanto segue: “adesso io parlo dalla parte dell’imprenditore, quando metti una donna in una carica importante, se è molto importante, poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta. E un imprenditore investe, tempo, energia e denaro e se ti viene a mancare è un problema, e, quindi, anche io da imprenditore responsabile della mia azienda spesso ho puntato su uomini perché …”[…] “va fatta una premessa, io oggi le donne le ho messe ma sono “anta”, perché questo va detto, cioè comunque, ancora ragazze ma … diciamo che il dovere …” “se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano far figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti i quattro giri di boa, quindi sono lì belle tranquille con me a mio fianco e lavorano h24, questo è importante …”.
A seguito dell’episodio sopra riportato, l’Associazione Nazionale Lotta alle Discriminazioni faceva ricorso ex art. 28 della Legge n. 150/2011, proponendo un’azione di discriminazione collettiva in sede di accesso al lavoro per età, genere, status e cura familiare, avente ad oggetto l’accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni dell’amministratrice e la condanna della società convenuta.
L’azienda si costituiva in giudizio eccependo, oltre alla carenza di legittimazione, processuale e sostanziale, ad agire dell’Associazione anche l’infondatezza, nel merito, della domanda (posto che le dichiarazioni incriminate erano successivamente state oggetto di chiarimento, seppur mai smentite).
Il Giudice, anzitutto, ha confermato la legittimazione attiva dell’Associazione ricorrente per tutti i casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla condotta pregiudizievole.
E, altresì, in ragione del contesto in cui sono state proferite, del conseguente clamore mediatico, nonché della posizione rivestita dal soggetto dichiarante, il Giudice ha ritenuto le dichiarazioni incriminate tali da incidere sull’oggettiva percezione da parte del pubblico e, dunque, integranti una forma di discriminazione collettiva e indiretta.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che il comportamento assunto dall’amministratrice costituirebbe di per sé una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione che incide sull’accesso e sullo sviluppo di carriera, integrando “una forma di discriminazione indiretta multifattoriale e intersezionale lesiva, sia per il contesto nel quale è stato posto in essere, sia in quanto idoneo oggettivamente, per l’estrema diffusione, a dissuadere le lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice della società.”.
In aggiunta, a quanto precede il Giudice ha precisato come il carattere discriminatorio per età, genere, status e carichi famigliari delle esternazioni pubbliche rese dall’amministratrice, ha trovato conferma non solo nella mancata presa di distanza dalle stesse da parte della società, ma anche dalle effettive politiche occupazionali adottate dall’impresa, i cui vertici risultanti dall’organigramma prodotto in giudizio contemplano Dirigenti donne assunte all’età di 48 e 57 anni, senza carichi familiari e Quadri 1 S assunte all’età di 50 e 53 anni, con un solo figlio a carico.
La società resistente è stata condannata al pagamento in favore dell’associazione ricorrente di una somma risarcitoria pari ad Euro 5.000,00, ad adottare un piano di formazione aziendale sulle politiche discriminatorie che preveda la realizzazione di corsi annuali ai quali siano chiamati a partecipare obbligatoriamente tutti i dipendenti, nonché la pubblicazione, a proprie spese, del dispositivo della sentenza su un quotidiano nazionale a scelta tra “Il Fatto Quotidiano”, “La Repubblica”, “Il Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 ore”.